Christian Schiefer, un fotografo a Piazzale Loreto
Giovanni Scirocco
Nato a Davos nel 1896 da una famiglia di falegnami della Val Passiria, Schiefer iniziò a fotografare, con un’Agfa regalatogli a 15 anni, utilizzando il cavalletto di legno e aspettando la luce giusta per ritrarre i paesaggi della “montagna incantata”. La fotografia divenne presto una passione e un’occasione di lavoro: seguì corsi di perfezionamento a Vienna e a Monaco e, dopo la forzata interruzione per il servizio militare nel corso della prima guerra mondiale, si impiegò nello studio De Jongh, un celebre fotografo di Losanna. Nel luglio 1920 si trasferì a Lugano-Paradiso, dove aprì un proprio negozio, specializzandosi in ritratti, cartoline e prospetti per gli alberghi del lungolago. Verso la metà degli anni ’20 iniziò a collaborare con la rivista «Illustrazione ticinese» e in seguito anche con altri rotocalchi. Nel 1937 gli venne affidato il primo incarico importante: fotografare, per un catalogo, i dipinti conservati nella pinacoteca del barone von Thyssen alla villa “La Favorita” di Castagnola (la magnifica collezione è da alcuni anni a Madrid, lì trasferita in un museo accanto al Prado). A contatto coi quadri del barone, soprattutto quelli dei pittori del Nord Europa (Cranach, Bosch, Holbein, Rembrandt) Schiefer si formò quella cultura pittorica che ritroviamo in alcune sue foto. Il 2 settembre 1939, mentre la Germania invadeva la Polonia e l’Italia iniziò la breve stagione della “non belligeranza”, la Svizzera decretava la mobilitazione generale. Giornalisti e fotoreporter, tra i quali Schiefer, furono arruolati nel “Servizio stampa e radio”, che doveva rispondere alle direttive impartite dallo Stato maggiore, documentando soprattutto i rapporti tra popolazione civile ed esercito. Dopo l’8 settembre 1943, grazie anche al fatto che carabinieri e guardia di finanza avevano abbandonato la vigilanza dei posti di frontiera italiani, migliaia di profughi affluirono nella Confederazione: soldati, sbandati, ex prigionieri alleati, ricercati, ebrei. In pochi giorni, fino a quando, il 18 settembre, i tedeschi rioccuparono i principali posti di controllo di frontiera, circa 30.000 persone. Tutti i reportage con i quali Schiefer documentò i passaggi di frontiera, le diverse fasi dell’accoglienza dei rifugiati e la loro vita nei campi di prima accoglienza, in attesa di essere trasferiti lontani dal confine, nella Svizzera interna, furono censurati, per non allarmare l’opinione pubblica svizzera. Schiefer fu incaricato anche di scattare le fotografie in formato passaporto da inserire nell’apposito “libretto per rifugiati”. Nel suo archivio (depositato a Bellinzona, presso l’Archivio di Stato del Canton Ticino) ne sono rimaste circa 400, ma soltanto ad una trentina di esse si è riusciti ad associare un nome, una storia, più o meno fortunata. Mancano inoltre le foto di quelli che furono respinti alla frontiera, per vari motivi, a partire dalla mutevolezza delle direttive («la barca è piena», dichiararono ad un certo punto le autorità elvetiche[1]), arrestati dai repubblichini, consegnati ai nazisti, deportati, gasati nei campi di concentramento.
Note:
[1] Cfr. R. Broggini, La frontiera della speranza. Gli Ebrei dall’Italia verso la Svizzera 1943-1945, Mondadori, Milano 1998.