Piazzale Loreto, 10 agosto 1944

Giovanni Scirocco

Quella di piazzale Loreto (la “prima” piazzale Loreto, la strage nazifascista di 15 partigiani) è una vicenda complessa, in cui si intrecciano quasi inesorabilmente storia, politica, memoria, narrazione. Non mi occuperò invece dell’aspetto giudiziario della vicenda perché non sono titolato a farlo e nemmeno del rapporto storia-giustizia, tema amplissimo e con diverse implicazioni, anche di carattere etico. Numerosi sono comunque i problemi di interpretazione storiografica che essa pone (considerando anche la sua caratteristica di rappresaglia cittadina a seguito di un attentato che, a differenza di quello di via Rasella del marzo 1944, vide come vittime solo degli Italiani), a cui posso solo accennare preliminarmente. Il sistema di occupazione tedesco in Italia dopo l’8 settembre 1943 ebbe una particolarità, rispetto a quello di altri paesi europei, e cioè la presenza dell’ex alleato Mussolini e del suo governo. Ciò produsse una politica di repressione che dovette confrontarsi con la presenza di più centri di potere, sia del governo di Salò (lo stesso Mussolini, il ministero dell’Interno, i capi delle provincie, il Partito fascista repubblicano e le Brigate nere, la Guardia nazionale repubblicana, le varie bande), sia degli occupanti tedeschi (l’ambasciatore Rahn, la Wehrmacht, le SS e la Polizia di sicurezza). La politica di repressione antipartigiana si mosse però solo raramente secondo direttive casuali. Si inserì invece, almeno per quanto riguarda i tedeschi (ai quali i repubblichini si adeguarono, confermando la loro subordinazione) in un quadro normativo preciso, che seguì una propria evoluzione, parallela ai cambiamenti in atto nel quadro militare più generale. Gli storici[1] concordano quindi che, da parte tedesca, fu proprio in concomitanza con gli scioperi del marzo 1944, l’attentato di via Rasella e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine  che si ricomposero i conflitti di competenza e le rivalità anche personali tra i diversi organi di sicurezza e di polizia e si arrivò a definire un accordo tra il comandante supremo della Wehrmacht, Keitel, e il comandante delle SS, Himmler, trasmesso in Italia il 1 maggio 1944. Nella strategia del comando tedesco, le azioni dovevano avere un duplice obiettivo: colpire i partigiani, ma anche far comprendere alla popolazioni quali conseguenze avrebbe avuto per i civili il comportamento dei partigiani. Si stabiliva quindi che i comandi di piazza locali avrebbero dovuto rendere noto che alla minima azione contro soldati tedeschi sarebbero prese le più dure contromisure. Il 15 giugno venne poi dato un nuovo assetto alla <<lotta contro le bande>>. Nell’ambito di competenza del generale plenipotenziario, la lotta sarebbe stata condotta dai comandi della Polizia di sicurezza, cui facevano capo tutte le forze della GNR e delle questure e a cui spettava anche la protezione dei mezzi e delle linee ferroviarie e così pure l’avvio di immediate azioni di rappresaglia. Tra la metà di maggio e l’inizio di giugno lo sfondamento della linea Gustav, la liberazione di Roma e l’arrivo della guerra in Toscana, lo sbarco in Normandia spinsero al ricorso sempre più massiccio alla guerra ai civili, variamente declinata a seconda dei singoli contesti locali. Le due settimane che vanno dal 10 al 25 agosto 1944 saranno in assoluto le più tremende: le stragi di Sant’Anna di Stazzema, Vinca e Padule di Fucecchio si verificano proprio in quei giorni. A Milano, il quadro dei mesi di giugno e luglio era stato invece caratterizzato dall’intensificarsi delle retate tedesche per rastrellare manodopera da inviare al lavoro forzato in Germania, cui i nuclei partigiani risposero con una serie di attentati ai treni nei depositi, nel tentativo di bloccare i trasporti.  

Una piazza

Piazzale Loreto trae la propria denominazione da una piccola cappella, costruitavi agli inizi del XV secolo, dedicata alla Madonna di Loreto. Nel 1616 vi fu poi edificato, per volere del cardinale Federico Borromeo, un monastero intitolato alla stessa Madonna. L’importanza della zona crebbe a partire dal 1825, quando furono aperte dagli Austriaci due vie (la postale veneta e la militare dello Spluga e dello Stelvio, oggi rispettivamente via Padova e viale Monza) che nel <<Rondò di Loreto>> trovavano il proprio sbocco, rendendolo un importante snodo di collegamento tra il centro e la periferia, la città e la provincia. Con il piano regolatore Beruto (1884) la piazza prese la forma di stella irregolare che mantiene ancora oggi. All’epoca dei fatti che narreremo, il piazzale era quindi uno dei punti di maggior transito del pendolarismo verso le fabbriche della Brianza e viceversa, con un transito quotidiano di diverse decine di migliaia di lavoratori. Anche ai giorni nostri la piazza mantiene un aspetto caotico ben descritto da Ferruccio Parazzoli, (ad essa ha dedicato una trilogia) che ci riconduce agli avvenimenti di cui essa è stata teatro: Dei palazzi che lo circondano, non varrebbe la pena parlarne se uno di loro, proprio sotto il suo basamento massiccio, non nascondesse qualcosa di storico, un ricordo poco bello, tanto che gli abitanti, quelli stanziali come sono io, non ne parlano mai, niente, né tra loro né con gli altri, e se qualcuno ti chiede dove abiti e tu gli dici <<piazzale Loreto>>, e il forestiero dice <<Ah, piazzale Loreto, non è quello di…>> <<Precisamente>> lo blocchi <<quello di Upim e di Coin>>. Che va mai cercando l’intruso, quali fantasmi rimemora? Ma adesso qui, per iscritto, tra di noi, ce lo possiamo anche dire cosa c’era sotto quel palazzo: la stazione di servizio della Esso dove furono appesi i corpi di Mussolini e della Petacci. Però non chiedete quale sia questo palazzo perché non ve lo dirà mai nessuno[2]   

10 agosto 1944

I morti aiutano i vivi e i fascisti hanno paura dei morti Luisito Bianchi, La messa dell’uomo disarmato

La mattina dell’8 agosto 1944 una bomba aveva fatto esplodere un camion della Wehrmacht parcheggiato di fronte al 77 di viale Abruzzi, a pochi metri dal Titanus, un albergo diventato la sede del comando logistico tedesco ( <<Piassa Luret, serva del Titanus>>, scriverà in un suo verso Franco Loi).[3] Sei passanti restarono uccisi e altri dieci feriti (le cifre non sono però, ancora oggi, certe).[4] L’attentato non fu mai rivendicato da alcuna formazione partigiana.[5] Poco prima della sua scomparsa, Giovanni Pesce, il comandante “Visone” dei Gap milanesi, ammise però che, nell’estate 1944, <<venne studiato in tempi rapidi un piano operativo per abbattere il numero maggiore possibile di mezzi di trasporto dell’esercito tedesco. L’incarico venne dato al distaccamento “Walter” che operò dal 20 luglio all’8 agosto. Il bilancio fu eccellente: otto grossi camion e due vetture andarono in fiamme>>.[6] I tedeschi comandarono per rappresaglia (nonostante le vittime fossero tutte italiane), la fucilazione di quindici <<comunisti e terroristi>>, detenuti a San Vittore senza alcuna imputazione specifica.[7] La rappresaglia fu eseguita dai militi della Guardia nazionale repubblicana e della Brigata Muti. Lo stesso 10 agosto il capo della Provincia, Parini, in un Promemoria urgente per il duce,  riferiva a Mussolini <<i particolari del gravissimo episodio di Ple. Loreto>>, mostrando, ancora una volta, la sudditanza dei fascisti di Salò nei confronti dell’ alleato nazista e, contemporaneamente, la confusione regnante tra i vari corpi armati della RSI. Vale la pena di riportare quasi per intero il promemoria, anche per la vivida descrizione degli avvenimenti che offre:

Alle ore 20 di ieri 9 cor. il colonnello Pollini della GNR mi informò telefonicamente a casa di avere avuto ordine dal Comando Militare Germanico della Piazza di approntare per il mattino seguente alle ore 5 un plotone per una esecuzione. Il Pollini riuscì soltanto dopo varie insistenze a conoscere di che si trattava, e cioè della fucilazione di 15 detenuti nel settore tedesco del carcere di S. Vittore incolpati di atti terroristici, arrestati tempo addietro dalle SS tedesche. Le autorità di polizia e militari tedesche di Milano avevano decisa l’esecuzione di questi individui in base al recente bando del Maresciallo Kesselring, come rappresaglia per l’attentato avvenuto contro un autocarro militare tedesco la mattina dell’8 corr. in viale Abruzzi. Il Pollini mi disse di aver fatto presente al Comandante della Piazza col. Goldbeck la opportunità di avvertire il Prefetto della provincia ma di aver ricevuto risposta che si trattava di questione puramente militare tedesca in ottemperanza ad ordini dati dal comandante in capo delle forze armate tedesche in Italia; la Prefettura e le autorità italiane  non avevano quindi alcuna ingerenza nella cosa. Il Pollini mi informò inoltre di aver disposto perché un plotone della “Muti” fosse a disposizione del Comando di Piazza tedesco alle ore 5 del mattino dopo. Alla mia osservazione circa questa destinazione giacché il Comando Provinciale della Guardia avrebbe anche potuto rifiutarsi lasciando che l’esecuzione venisse eventualmente eseguita da reparto tedesco, il Pollini mi citò una circolare di Ricci che ordina ai Comandi Prov. di stare a disposizione dei comandi tedeschi di Piazza per gli impieghi di polizia militare. Alle ore 20,20 iniziai attraverso il centralino telefonico della prefettura (a tentare, N.d.R) di mettermi in comunicazione con il gen. Wening, col colonnello Goldbeck e col capitano Saevecke delle S.S: ma stante l’ora tarda o perché non desideravano rispondere intuendo che cosa si trattava, non potei parlare con nessuno dei tre ufficiali […]. Richiamai allora il Pollini e gli ordinai di andare personalmente a cercare il col. Goldbeck e fargli presente la necessità di prendere contatto con me rilevando anche il fatto che le vittime dell’attentato di vle. Abruzzi erano tutte italiane e neppure un tedesco e quindi era giusto che se rappresaglia si fosse fatta anche le autorità italiane dovevano esprimere il loro avviso […]. Alle 6,30 ebbi un’altra telefonata di Pollini con la quale mi dava notizia della avvenuta esecuzione in ple. Loreto in vicinanza di Vle. Abruzzi dove era stato compiuto l’attentato all’autocarro. Dissi al Pollini di venire subito da me dopo aver provveduto a far scortare i cadaveri all’obitorio. Egli si presentò in Prefettura alle 7 e mi fece una descrizione raccapricciante dell’episodio. Alle 4,30 del mattino i designati alla esecuzione, ignari di tutto, venivano svegliati e invitati a discendere nel cortile delle carceri dove veniva loro data da indossare una tuta. Fra i designati si sparse la voce che sarebbero andati a lavorare in Germania. Caricati su di un camion scortato da una motocarrozzetta sulla quale erano dieci militi della “Muti” i disgraziati giunsero in Ple. Loreto dove erano quattro soldati tedeschi e un ufficiale e dove si trovò anche Pollini. L’ufficiale tedesco fece segno al camion di fermare e fece scendere i detenuti ai quali impose di mettersi vicino ad una palizzata sul lato sinistro del piazzale, mentre i militi, sempre su ordine dell’ufficiale tedesco, si disponevano a semicerchio. Solo in quel momento i disgraziati ebbero la improvvisa certezza di quel che accadeva, e si ebbe una brevissima, straziante, scena di disperazione. L’ufficiale tedesco diede subito l’ordine di far fuoco e avvenne una sparatoria disordinata. I disgraziati si erano intanto un po’ sbandati in un estremo tentativo di fuga e quindi furono colpiti in tutte le parti del corpo. Uno di essi, ferito a morte, riuscì ad attraversare il piazzale, entrare in casa e salire fino al pianerottolo del secondo piano, dove spirò, in un lago di sangue.[8] Al momento dell’esecuzione il piazzale era deserto, stante l’ora. L’ufficiale tedesco diede l’ordine ai militi di fare un cordone intorno al mucchio di cadaveri, al di sopra dei quali affisse un cartello che indicava la rappresaglia per l’attentato di Vle. Abruzzi. Il cartello era firmato “Il Comando Militare tedesco”. Il Col. Pollini aggiunse nella sua relazione orale del fatto che vi era una disposizione dei tedeschi di lasciare esposti i cadaveri sul luogo dell’esecuzione fino al pomeriggio […]. Nel frattempo cominciarono a transitare per il ple. Loreto gli operai che si recavano al lavoro e tutti si fermavano ad osservare il mucchio di cadaveri che era raccapricciante oltre ogni dire perché i cadaveri erano in tutte le posizioni, cosparsi di terribili ferite e di sangue. Avvenivano scene di spavento da parte di donne svenute e in tutti era evidente lo sdegno e l’orrore […]. Mi sono allora rivolto al colonnello delle SS Rauff ed egli mi rispose che l’ordine di tenere esposti i cadaveri era venuto dal generale Tensfeld e quindi non era in sua facoltà mutarlo. La stessa risposta mi fu data dal genrale Wening e dal colonnello Goldbeck. Al colonnello Rauff dissi che avrei mandato sul Ple. Loreto due furgoni dell’Obitorio in attesa che egli riuscisse di mettersi in comunicazione col generale Tensfeld a Torino. I due furgoni non poterono adempiere il loro ufficio che al pomeriggio.[9] Alle ore 10 mi sono recato dal generale Wening e poi dal col. Goldbeck e da von Halem per esprimere il vivo dolore mio e dei miei collaboratori per il modo con cui si erano svolti i fatti e per il contegno delle autorità tedesche nei riguardi delle autorità italiane. Non potevo, aggiunsi, dire nulla circa la effettiva colpabilità (sic) dei fucilati, ma il modo della fucilazione era stato quanto mai irregolare e contrario alle norme. I disgraziati non avevano neppure avuto l’assistenza del sacerdote, cosa che non si è mai negata al più abbietto assassino. Ho precisato che avrei fatto un rapporto a Voi chiedendo istruzioni perché non poteva essere più possibile una proficua collaborazione fra autorità tedesche e italiane se da parte delle prime si agiva con così completa autonomia. I tre personaggi mi hanno risposto con la stessa formula: essere cioè l’esecuzione una consegna del bando del maresciallo Kesselring che è stato pubblicato dappertutto e dato tre volte al giorno per radio per un mese. La impressione in città perdura fortissima e la ostilità ai tedeschi è molto aumentata. Vi sono stati anche scioperi parziali in alcuni stabilimenti e corre voce che se ne prepari uno generale per domani. Questi i fatti. Non vi nascondo che mi sento profondamente a disagio nella mia carica, giacché il modo di procedere dei tedeschi è tale da rendere troppo difficile il compito di ogni autorità e determina una crescente avversione da parte della popolazione verso la Repubblica.[10]

Come abbiamo letto nel Promemoria di Parini, per ordine dei nazisti i cadaveri vennero lasciati sul posto fino alle sei di sera: era infatti tipico della strategia nazifascista ricorrere, per ammonimento, alla pubblica esposizione dei corpi del nemico.[11] Infatti, come ha notato Santo Peli

la pratica di impedire il seppellimento delle persone trucidate, benché ampiamente diffusa, non viene mai esplicitata nelle direttive tedesche di cui abbiamo conoscenza, né se ne trova menzione nei bollettini della Gnr. Ciò fa appunto pensare che non tanto di regole, di rigide norme antiguerriglia si tratti, quanto piuttosto di una prassi che si diffonde, che sembra “appartenere” a questi combattenti […] al loro modo di vivere e di divenire dentro questa lotta sempre più disperata [..]. I cadaveri degli uccisi devono restare evidenti, visibili agli uccisori e non solo al popolo. Servono agli uccisori, non solo come monito ai nemici (e ormai tutti i civili lo sono) ma soprattutto come conferma della propria potenza […]. Più la potenza dell’uccisore è incerta e scricchiolante, e più necessita di un rinforzo visibile, della evidenza dei nemici uccisi, esorcismo di una fine intuita, temuta, a volte persino invocata […]. Violare l’ordine antico, aggredendo i cadaveri e impedendo i riti della tradizionale pietà, assume qui il valore di una dichiarazione, di una scelta di campo: noi siamo oltre, al di sopra[12]

Ricorda Franco Loi, allora quattordicenne, grande poeta dialettale milanese:

Erano tutti abitanti del rione, tra Teodosio e Loreto. Uno con le mani protese davanti alla faccia, come a proteggersi e gridare – una faccia paonazza, gli occhi come buchi viola, i capelli impiastricciati, incollati alla fronte bassa; un altro con gli occhi stravolti, bianchi, le labbra tumide, dure; e altri ancora con le dita lunghe come rami, e certi colli gialli tra camicie gualcite, magliette spiegazzate […]. I parenti non potevano onorare i loro morti. Nessun grido, nessun pianto. I fascisti erano lì, giovani e spavaldi. In quel fotogramma della loro vita e della loro storia, sprezzanti, quasi a non dover o non poter tradire la parte che una terribile legge gli aveva assegnato. Ogni tanto provavo a distogliere gli occhi, e vedevo quei giovani in divisa nera, che fissavano la gente e sembrava volessero provocare. Ma la gente era immobile, come inchiodata, con gli occhi bassi e le spalle pesanti. Tutto pareva far parte di una scena irreale, completamente separata dall’ampiezza del cielo e di piazzale Loreto, che sotto il sole si allontanava verso viale Monza, viale Padova, via Porpora e quel Titanus imponente del comando tedesco.[13]

La sensazione provata da Loi è simile a quella descritta da Alfonso Gatto in una celebre poesia:

Ed era l’alba, poi tutto fu fermo La città, il cielo, il fiato del giorno. Rimasero i carnefici soltanto Vivi davanti ai morti. Era silenzio l’urlo del mattino, Silenzio il cielo ferito: Un silenzio di case, di Milano. Restarono bruttati anche di sole, sporchi di luce e l’uno all’altro odiosi, Gli assassini venduti alla paura. Era l’alba e dove fu lavoro, Ove il Piazzale era la gioia accesa Della città migrante alle sue luci Da sera a sera, ove lo stesso strido Era saluto al giorno, al fresco Viso dei vivi, vollero il massacro Perché Milano avesse alla sua soglia Confusi tutti in uno stesso cuore I suoi figli promessi e il vecchio cuore Forte e ridesto, stretto come un pugno[14]

Anche Camilla Cederna ha ricordato di aver assistito all’episodio:

Formavano un gruppo tragicamente disordinato, per via del sangue, delle pose scomposte, dell’essere in una piazza quasi a contatto coi passanti. Uno addosso all’altro, pieni di mosche, sotto un sole tremendo, chi con le braccia aperte, chi rannicchiato; e sui cadaveri un cartello: “Il comando militare tedesco”. La gente, silenziosa e atterrita, che gli girava intorno, una vecchietta rimproverata perché si era fatto il segno della croce, mentre non è stato detto niente a un uomo che, presa bene la mira, ha sparato nel mucchio. Erano giovanissimi e anziani, in tuta blu o in giacca qualsiasi, tutti verdastri in faccia, sangue dappertutto, e i bambini che non smettevano mai di andare in prima fila ad osservarli meglio. Era uno spettacolo che non dimenticherò mai, e che mi ha riempito di dolore e vergogna[15]

Pure Giovanni Pesce si recò in piazzale Loreto:

L’ultimo volto che vedo, abbandonando la piazza, è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta, in cui si dà e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte. loro ridono. Hanno appena ucciso quindici uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo. Esso taglia nettamente il mondo: da un lato la barbarie, dall’altro la civiltà […]. Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e a uccidere. Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio “un esempio”[16]

Nel 1999 l’unico sopravvissuto tra i responsabili nazisti della strage, Theodor Saevecke, allora capo della Gestapo a  Milano, fu condannato all’ergastolo in contumacia dal tribunale militare di Torino. Nel dopoguerra Saevecke era diventato prima un agente CIA, con il nome in codice di Cabanio e successivamente, passato alla polizia federale tedesca, vicedirettore dei servizi di sicurezza della Germania occidentale, fino al suo pensionamento nel 1971. È morto nel 2004.[17] Secondo le dichiarazioni di Franz Schromm, interprete alle dipendenze del colonnello Goldbeck, raccolte il 30 aprile 1946 dallo Special Investigation Branch inglese, la fucilazione di circa 20 ostaggi civili come rappresaglia era stata proposta da Saevecke allo stesso Goldbeck:

Il col. Goldbeck informò Saevecke che egli non poteva dare un tale ordine e che doveva ricevere istruzioni in proposito dal generale delle SS Tensfeld, unica persona autorizzata a dare ordini di fucilazione, fatta eccezione per quelli colti in flagranza. A questo colloquio erano presenti il comandante della Brigata Nera Costa ed il colonnello italiano Colombo della Legione Muti. Entrambi gli ufficiali delle SS si opposero al fatto di informare il prefetto Parini, perché sapevano che egli era contro la fucilazione. Anche Costa si oppose alla fucilazione, mentre Colombo se ne dichiarò favorevole

La testimonianza di Schromm fu sostanzialmente confermata da un sottoposto di Saevecke, il tenente delle SS Eugen Krause, interrogato il 23 novembre 1946 nel carcere di Portici dov’era detenuto, che aggiunse:

Gli italiani si lamentarono che in molti casi i colpevoli non erano stati trovati e suggerirono, pertanto, che fossero prese serie misure. Per quanto ricordi, il primo a far da portavoce fu il rappresentante della Legione Muti. Gli italiani suggerirono l’impiccagione di un centinaio di persone davanti alla stazione di Milano[18]

 

L’ultimo viaggio di Mussolini

I morti hanno dei diritti che è difficile precisare in anticipo; e tanto meno è possibile fissare il momento in cui essi ne presentano il conto ai vivi Luisito Bianchi, La messa dell’uomo disarmato

  L’ultimo viaggio di Mussolini verso piazzale Loreto iniziò, forse, proprio il 10 agosto 1944. Secondo alcune testimonianze Mussolini, alla notizia dell’eccidio, avrebbe esclamato: <<Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro>>.[19] Un appunto del comando della GNR, datato 15 settembre 1944, ci informa inoltre che Mussolini <<avrebbe manifestato il desiderio di prendere visione di una fotografia fatta a Milano dopo la fucilazione effettuata in piazzale Loreto il 10 agosto di 15 elementi appartenenti ai gruppi della GAP>>.[20] Suscita comunque una certa impressione leggere l’articolo, intitolato Coccodrilli,  scritto dallo stesso Mussolini il 26 giugno 1920 sulle colonne del <<Popolo d’Italia>> in occasione dell’uccisione di un brigadiere dei carabinieri, avvenuta proprio a piazzale Loreto durante una manifestazione di ferrovieri in sciopero:

La storia italiana non ha episodi così atroci come quello del piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentano l’avvenire, ma i ritorni all’uomo ancestrale (che, forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato). Né giova ributtare sulla guerra l’origine unica di questa ferocia. I linciatori di piazzale Loreto non videro mai una trincea: si tratta di imboscati o di minorenni che non hanno fatto la guerra. I reduci di guerra sono, in genere, alieni da violenza

Non è quindi un caso che molti testimoni degli eventi confrontino le due piazze e le due folle, quella del 10 agosto 1944 e quella del 29 aprile 1945. Tra tutte, ci sembra significativa quella di Franco Jannelli, raccolta dal regista Damiano Damiani nel corso delle ricerche per il programma della RAI La mia guerra:

La mattina del 10 agosto 1944 accadde il fatto che più mi fece capire che quella guerra era anche la mia guerra e non potevo limitarmi alle sole esecrazioni elaborate dalla mente e alle dispute verbali. Ero uscito di casa come al solito di buon’ora e mentre camminavo verso piazzale Loreto fui stupito dal silenzio insolito nonostante un folto assembramento di gente. Accellerai il passo e notai le facce costernate di quanti si allontanavano da quel punto. Qualcuno aveva gli occhi umidi, qualche altro si comprimeva la bocca col fazzoletto. Alla confluenza di corso Buenos Ayres con via Andrea Doria, vicino ad un muro che delimitava un distributore di benzina in disuso e danneggiato dai bombardamenti erano accatastati i corpi di una ventina di uomini brutalmente straziati e coperti di sangue; anche la terra tutto attorno ne era inzuppata. Qualcuno, a bassa voce, spiegava che siccome erano stati uccisi a raffiche, la fuoruscita del sangue era stata pressoché totale. Appoggiati ai cadaveri c’erano dei cartelli scritti a mano con le parole <<partigiani>> e <<banditi>>. A fare la guardia a quei poveri corpi c’era un ragazzo forse della mia età o forse d’un anno più anziano di me che abitava sul mio stesso viale e col quale mi ero intrattenuto a parlare qualche settimana prima assieme ad altri. Vestiva una fiammante divisa della famigerata brigata nera Aldo Resega e imbracciava un mitragliatore Beretta 38. La sua faccia ostentava indifferenza e tracotanza al tempo stesso;[21] certamente non mi vide o se mi vide fece finta di niente come del resto avrà fatto per quanti altri lo conoscevano. Mi stavo allontanando da quel triste assembramento e notai che c’era un altro capannello di gente che leggeva in silenzio un manifesto col quale il Comando germanico di zona comunicava alla cittadinanza la causa per la quale erano stati “giustiziati” i quindici “banditi”, perché quindici erano in effetti, con l’elenco dei nomi, età, professione e residenza. Quale non fu il mio sgomento quando vi lessi fra gli altri, il nome del mio maestro degli ultimi anni delle scuole elementari: Principato Salvatore.[22] Tornai verso il luogo del massacro e lo scorsi fra gli altri. Prima non avevo potuto notarlo. Le gambe mi tremavano per la paura e per l’indignazione. È questa la guerra? Evidentemente è questa […]. Il 29 aprile 1945, l’anno seguente, con quegli stessi compagni e amici, cercavamo di districarci dalla inverosimile folla che si accalcava in piazzale Loreto sullo stesso spiazzo di quel maledetto distributore. Questa volta, buttati per terra, c’erano i cadaveri dei gerarchi fascisti catturati a Dongo, mentre cercavano disperatamente di sfuggire al loro destino. Erano quindici. Qualcuno era stato legato alle caviglie e appeso a testa in giù alla struttura in ferro della pensilina del distributore che, dopo i bombardamenti, non era mai stato riparato. Tra quelli appesi riconobbi, oltre a Benito Mussolini, l’unica donna Petacci Clara e Pavolini. Gli altri non li conoscevo e solo di qualcuno avevo sentito parlare vagamente. Lo spettacolo era macabro e contrappesava in crudeltà quello dei quindici Partigiani abbattuti otto mesi prima. Adesso eravamo io e i miei compagni ad impugnare armi; erano vecchi e lunghi fucili modello 1891 peraltro molto ben conservati.[23]

Nello stesso giorno dell’eccidio di piazzale Loreto, un volantino della Delegazione per la Lombardia del comando generale delle Brigate e Distaccamenti d’Assalto Garibaldi, dopo aver comunicato che, in risposta alla fucilazione dei quindici ostaggi innocenti, erano stati passati per le armi quindici militi fascisti, ordinava <<a tutte le formazioni Partigiane Garibaldine della montagna e della pianura, ed in particolare ai Gruppi di Azione Patriottica di vendicare immediatamente le vittime innocenti. Chiede a tutta la popolazione milanese di sostenere con ogni mezzo la lotta armata per la liberazione dell’Italia>>.[24] Quando, alle 22.30 circa della sera del 28 aprile 1945, un camion di partigiani guidati da Aldo Lampredi e Walter Audisio, il colonnello Valerio, l’esecutore materiale, secondo la versione ufficiale, dell’esecuzione di Mussolini a Giulino di Mezzegra, arrivò a Milano trasportando i corpi del duce, della sua amante Claretta Petacci e del fratello di quest’ultima, Marcello, insieme a quelli dei quindici gerarchi fascisti fucilati a Dongo, la scelta di piazzale Loreto,[25] di “mostrare” la morte e proclamare la fine del fascismo e della guerra, non fu casuale, ma voluta[26] (Luigi Meneghello, partigiano giellista, scriverà in Bau-sète! che <<era necessario disfarsi del fascismo in modo percepibile ai sensi>>)[27] interpretando <<in modo letterale quel criterio toponomastico dell’esercizio della vendetta che informa la giustizia partigiana durante i giorni dell’insurrezione>>.[28] Non sorprende, in definitiva, che l’Unità del 30 aprile 1945, a pagina 2, pubblichi due foto della folla di piazzale Loreto con la seguente didascalia: <<Un’epoca si chiude con questo giorno. Il labaro nero si alza funereo sulle salme. Il popolo guarda i suoi nemici vinti per sempre nella piazza sacra ai suoi martiri. Ma un altro giorno la stessa folla aveva mormorato “vendetta”, mentre i carnefici schiaffeggiavano le madri e minacciosi puntavano i mitra sui figli in lacrime. Non si va contro il popolo. Oggi che giustizia è fatta s’alza tremendo dalla folla un monito: non si va contro il popolo. I maggiori responsabili della tragedia italiana giacciono senza vita nello stesso luogo in cui caddero i quindici martiri. L’ombra di questi è placata>>.  

Note

[1] Cfr., tra gli altri, Andrae 1997, Battini e Pezzino 1997, Schreiber 2000, Klinkhammer 2006 e 2007 [2] Parazzoli, 2006/14-15 [3] Loi, 2005/235-238 [4] Le generalità delle vittime furono riportate dal <<Corriere della sera>> del 10 agosto 1944. Cfr. anche la relazione del comando presidio della Guardia nazionale repubblicana di Porta Monforte in Archivio centrale dello Stato, fondo GNR, b. 36, che conferma il dato di sei morti, smentendo così tutte le cifre fornite successivamente dalla memorialistica neofascista [5] Cfr., per tutte queste vicende, Borgomaneri 1997 e la tesi di laurea inedita di Sergio Fogagnolo (figlio di una delle vittime della rappresaglia nazista), L’altro piazzale Loreto, Università degli studi di Milano, Facoltà di scienze politiche, a.a. 2005-6 [6] Cfr. Giannantoni e Paolucci, 2005/133 [7] Brevi biografie in Cenati e Quatela (a cura di), 2007/53-67 [8] Si trattava di Eraldo Soncini, operaio della Pirelli e membro del CLN di Porta Venezia. La descrizione della sua morte è nella deposizione di uno dei brigatisti neri presenti, Luigi Campi, interrogato il 4 aprile 1946 nel carcere di San Vittore dai funzionari della Special Investigation Branch: <<Quando lo raggiungemmo era disteso sulla soglia della porta. Una delle altre guardie, Luisi Giacinto, puntò la sua arma automatica verso di lui e disse: “Non so se sia morto, ma gli darò il colpo di grazia”, cosa che fece quasi contemporaneamente>>. La testimonianza di Campi è confermata da un altro brigatista nero, Silvio Borghi: <<Non notai nessuna ferita sul suo corpo e credo che non fosse morto. In quel momento Luisi puntò il suo mitra sul detenuto. Gli dissi di non sparare, ma egli non mi diede retta, così io girai la testa mentre fece fuoco>> (cfr. anche, nello stesso fascicolo, la deposizione di due inquilini dello stabile di via Palestrina 9 dove si era rifugiato il Soncini). Sottoposti a processo nel dopoguerra, Campi fu assolto e Luisi condannato, in primo grado, a trent’anni di reclusione (cfr. Franzinelli 2002/107-108 e l’incartamento del processo in Archivio di Stato di Milano, Corte d’Assise straordinaria di Milano, 1947, b. 64) [9] Parini aveva chiesto, a questo proposito, l’intervento di Mons. Corbella, segretario del Card. Schuster, che il 10 aprile 1946 testimoniò alla Special Investigation Branch: <<Immediatamente mi recai da Von Halem, il quale alle mie richieste rispose che tutte le vittime erano dei criminali e dovevano restare in piazza. Chiesi che i cadaveri fossero rimossi entro le ore di quello stesso giorno. Mi recai per quell’ora in piazza, ma i cadaveri erano ancora là. Mi recai quindi di nuovo da Von Halem e lo informai che se i cadaveri non fossero stati rimossi per le ore 20 lo avrei fatto io stesso. Von Halem trovò la scusa che non disponeva di mezzi di trasporto, ma quando più tardi mi recai in piazza, verso le ore 20, i cadaveri erano stati già rimossi, ritengo ad opera degli uomini della Brigata Nera che erano rimasti a guardia per tutto il giorno>> [10] Il documento è reperibile in Fondazione Istituto per lo studio dell’età contemporanea, Sesta San Giovanni, Fondo Aned, b. 66, f. 43. Il 15 agosto Parini si dimise dall’incarico. Processato dalla Corte d’Assise straordinaria nell’ottobre 1945,  per questo suo gesto otterrà una sentenza di condanna assai mite: otto anni e quattro mesi che saranno poi cancellati in Cassazione [11] Sopra il mucchio dei cadaveri venne posto un cartello, firmato Il comando militare tedesco, che indicava che la fucilazione era avvenuta in rappresaglia dell’attentato di viale Abruzzi [12] Peli, 1999/131. È un’affermazione di sé presente anche nelle parole di un combattente della RSI, Carlo Mazzantini: <<Morire è niente: non esiste. nessuno riesce ad immaginare la propria morte. E’ uccidere il punto, varcare quel confine! Quello sì è un atto concreto della tua volontà. Perché lì vivi, in quella di un altro, la tua. E’ lì che dimostri di possedere qualcosa che senti valere più della vita: della tua e di quella degli altri>> (Mazzantini, 1986/136) [13] Cfr. Sicari, 2002/73-77 [14] Gatto, 2005/266-67. Cfr. anche Quasimodo, 2001/181, che così si conclude: <<Temono/di voi la morte, credendosi vivi./La nostra non è guardia di tristezza,/non è veglia di lacrime alle tombe;/la morte non dà ombra quando è vita>> [15] Cederna, 1979/16-17 [16] Pesce, 1973/25. Santo Peli ha osservato, utilizzando un’espressione di Giaime Pintor, che neppure i partigiani riuscirono, evidentemente, a restare immuni dall’ <<orrenda debolezza dell’uomo>>: <<Potrebbe negarlo solo una visione eroicistica della resistenza, disposta a immaginare partigiani più simili ad astrazioni retoriche che a uomini […]. La guerra di liberazione è guerra civile, non solo perché è guerra ideologicamente caratterizzata, dove si scontrano membri della stessa comunità nazionale, ma anche nel senso di guerra più intima, interna ad ogni combattente, fra umanità normale, che rimane dentro la norma, il rispetto dei più radicati tabù, e la violazione della norma, l’infrazione del tabù […] Ed è anche nell’animo di ogni singolo combattente che si gioca quindi una partita, mai definita una volta per tutte, tra civiltà e ferinità, tra presa di distanza dalla violenza gratuita ed esaltazione della ferocia come valore in sé>> (Peli, 1999/133-134) [17] Cfr. la relazione di minoranza della Commissione bicamerale di inchiesta sulle cause dell’occultamento dei fascicoli sulle stragi nazifasciste in Italia, reperibile in rete nel sito della Camera dei deputati, pp. 209-24 [18] I verbali dei due interrogatori, nella versione originale e in traduzione, erano contenuti nel fascicolo 2167, intestato a “Von Tensfeld + 18” (e quindi riferentesi ai fatti del 10 agosto 1944) del cosiddetto “armadio della vergogna” ed è ora depositato all’Archivio storico della Camera dei deputati come documento 50/1 degli atti della Commissione bicamerale di inchiesta. Ringrazio il Prof. Paolo Pezzino per la preziosa indicazione [19] Cfr. Lazzero, 1983/66 [20] Archivio centrale dello Stato, Fondo GNR, Archivio generale, b. 36 [21] <<Il terrore suscitato dal morto quando giace dinanzi a chi lo guarda è compensato dalla soddisfazione: chi guarda, non è lui il morto […]. Il vivo non si crede mai così alto come quando ha di fronte il morto, che è caduto per sempre […]. La presenza fisica del nemico, vivo e poi morto, è indispensabile>> (Canetti, 1979/13-14, 18) [22] Salvatore Principato, medaglia d’argento al valor militare nella prima guerra mondiale, socialista, insegnava alla scuola elementare Leonardo da Vinci tuttora sita a poche centinaia di metri da piazzale Loreto [23] Testimonianza di Franco Jannelli, datata 18 febbraio 1990, in Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Fondo RAI – La mia guerra, busta 17, fascicolo 2033 [24] Fondazione Feltrinelli, Fondo PCI nella Resistenza, b. 7, fascicolo 17. Nello stesso fondo è presente anche un volantino, firmato dalla federazione milanese del Partito Comunista Italiano, che, sotto il titolo Milanesi ricordate!, ripoduce una fotografia dei fucilati. La foto fu scattata, per odine di Carlo Piazza, comandante di un distaccamento della 110esima Brigata Garibaldi SAP presso la vicina fabbrica Magnaghi, con una piccola macchina fotografica sottratta alla stessa azienda (cfr. Borgomaneri, 1997/135). Foto dell’eccidio sono presenti anche negli archivi tedeschi, ma probabilmente non a scopo di propaganda: cfr. Gentile, 1996/749-753 [25] In realtà, i corpi furono scaricati in piazzale Loreto solo parecchie ore più tardi, alle 3.30 del mattino. Nella confusione di quei momenti, il camion, che arrivava da Giulino di Mezzegra e da Dongo, accompagnato da due auto di scorta, fu fermato in via Fabio Filzi, nei pressi dello stabilimento della Pirelli, da un gruppo di partigiani della divisione “Ticino” (una formazione di ispirazione democristiana), che fermò tutti i componenti del convoglio. Solo dopo aver chiarito, anche per l’intervento del gen. Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà, che <<il colonnello Valerio era in missione per trasportare in piazzale 15 Martiri il suo carico al fine di dare soddisfazione a tutto il popolo italiano […] con grande gioia dei nostri sappisti si provvedeva all’accompagnamento dell’autofurgone in piazzale 15 Martiri, dove si eseguiva lo scarico dei cadaveri ed il colonnello Valerio ordinava al comandante Bulotta di comandare una guardia fino alle ore 7 del mattino, ora in cui si riceveva il cambio da parte dei garibaldini della 52esima brigata oltrepò pavese>> (Relazione sul moto insurrezionale del VI distaccamento di Pirelli Milano della 110 brigata SAP “Beppe”, in Fondazione Istituto per la storia dell’età contemporanea, Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 2, fascicolo 16) [26] <<La scelta non era stata improvvisata quella notte, era stata suggerita dai nostri compagni milanesi; e io avevo in mente la staccionata, il piazzale, quell’angolo del piazzale, dalla sera del 10 agosto 1944>> (Audisio, 1975/391). Parzialmente diversa la versione fornita da Aldo Lampredi nella lettera inviata nel maggio 1972 alla Direzione del PCI e pubblicata da<< l’Unità>> il 23 maggio 1996: <<La decisione di metterli in quel posto fu presa durante il viaggio di ritorno e mi pare proprio su mio suggerimento. Di sicuro è che quando partimmo da Milano (per fucilare Mussolini, N.d.R) questo problema non ci venne posto, né ci pensammo […]. (Longo) mi domandò dove avevamo lasciato i corpi dei gerarchi e quando gli dissi in piazzale Loreto dove erano stati fucilati i 15 partigiani, espresse disappunto ritenendo che avessimo profanato il luogo. Gli risposi che secondo noi era un atto che rendeva giustizia a tutti i caduti nella lotta di Liberazione e rappresentava un esempio salutare e un efficace ammonimento>>. In una testimonianza precedente, lo stesso Lampredi aveva affermato che <<non è vero che dovevano essere fucilate esattamente quindici persone, come qualcuno ha detto, per poter presentare questo atto di giustizia alla stregua di una rappresaglia per i quindici partigiani trucidati l’anno prima a piazzale Loreto. In effetti, i giustiziati furono diciotto>> (cfr. Falaschi, 1973/106) [27] Meneghello, Bau-sète!, 1996/40. Armando Cossutta riferisce che Luigi Longo gliene parlò più o meno negli stessi termini: <<Volevamo che tutti vedessero i loro corpi, al di là degli aspetti macabri che non erano nelle nostre intenzioni, perché tutti potessero capire che ormai era finita e che il fascismo era morto per sempre>> (Cossutta, 1995/39) [28] Luzzatto, 1998/73. Guido Crainz ha scritto, di recente, del << feroce e arcaico contrappasso di piazzale Loreto, ove il corpo del “tiranno ucciso” è esposto e vilipeso nel luogo aveva fatto esporre i corpi di quindici antifascisti. Si consideri a Torino l’uccisione del federale Giuseppe Solaro, uno degli esponenti più risoluti e fanatici di Salò, impiccato nel luogo stesso in cui aveva fatto impiccare quattro partigiani […]. Il 28 aprile a Biassono, poco distante da Milano, dopo una “condanna a morte” promunciata in un tumulto di folla, il segretario del fascio repubblicano, tenente delle Brigate nere, è portato nello stesso luogo in cui è stato impiccato un partigiano del paese e qui viene ucciso. Negli stessi giorni a Griante, nel Comasco, è catturato il comandante della Legione Muti (Franco Colombo N.d.R.): è portato a S. Fedele ove è condannato a morte da un tribunale del popolo e poi fucilato a Lenno, nello stesso luogo ove qualche mese prima erano stati uccisi tre partigiani. A Bologna, invece, il capo gabinetto della questura è ucciso nella piazza in cui i fascisti esponevano i corpi dei partigiani>> (Crainz, 2007/90-91)   Bibliografia   Andrae F., La Wehrmacht in Italia: la guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile, 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1997 Audisio W., In nome del popolo italiano, Teti, Milano 1975 Battini M. e Pezzino P., Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997 Borgomaneri L.,  Hitler a Milano: crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, Datanews, Roma 1997 Canetti E., Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 1979, pp. 13-14, 18 Cederna C., Milano in guerra, Feltrinelli, Milano 1979 Cenati R. e Quatela A. (a cura di), Alle fronde dei salici. 15 vite per la libertà, Anpi zona 3, Milano 2007 Cossutta a., Quando Longo mi raccontò piazzale Loreto, in Giorgino F. e Rao N., L’un contro l’altro armati. Dieci testimonianze della guerra civile (1943-1945), Mursia, Milano 1995 Crainz G., L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007 Falaschi C., Gli ultimi giorni del fascismo, Ed. Riuniti, Roma 1973 Franzinelli M., Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano 2002 Gatto A., Per i martiri di piazzale Loreto, in  Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2005, pp. 266-67 Gentile C., Piazzale Loreto 10 agosto 1944. Dai fondi fotografici degli archivi tedeschi, Italia contemporanea, n. 205, dicembre 1996, pp. 749-753 Giannantoni F. e Paolucci I., Giovanni Pesce “Visone”. Un comunista che ha fatto l’Italia, Arterigere, Varese 2005 Klinkhammer L., Stragi naziste in Italia (1943-1944), Donzelli, Roma 2006 Klinkhammer L., L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007 Lazzero R., Le brigate nere, Rizzoli, Milano 1983 Loi F., Stròlegh, in Aria de la mémoria, Torino, Einaudi 2005 Luzzatto S., Il corpo del duce, Torino, Einaudi, 1998 Mazzantini C., A cercar la bella morte, Mondadori, Milano 1986 Parazzoli F., MM Rossa, Mondadori, Milano 2003 Parazzoli F., L’evacuazione, Mondadori, Milano 2005 Parazzoli F., Piazza bella piazza, Mondadori, Milano 2006 Peli S., La resistenza difficile, Franco Angeli, Milano 1999 Pesce G., Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1973 Quasimodo S., Ai quindici di piazzale Loreto, in Poesie e discorsi sulla poesia,  Mondadori, Milano 2001, p. 181 Schreiber G., La vendetta tedesca: 1943-1945, le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 Sicari G., Milano nei passi di Franco Loi, Unicopli, Milano 2002

Milano capitale della Resistenza

Milano viene giustamente definita capitale della Resistenza.
A Milano avevano sede il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui fu Presidente e tesoriere Alfredo Pizzoni, e dal giugno 1944 il Comando del Corpo Volontari della Libertà.

Roberto Cenati

La mostra ritrovata

Il ritrovamento quasi fortuito degli 80 pannelli della mostra di Bordeaux ha permesso di aggiungere un importante tassello agli studi sull'autorappresentazione del movimento partigiano immediatamente dopo la guerra.

Adolfo Mignemi

Disegni, artisti, resistenze

I ventidue disegni che vengono presentati nell’esposizione che celebra i 75 anni della Liberazione provengono dal fondo costituito da Mario De Micheli e dedicato al tema della Resistenza.

Francesca Pensa

La libertà negli occhi e il coraggio della pittura

Disegni di artisti resistenti raccolti da Mario De Micheli

Giorgio Seveso

Christian Schiefer, un fotografo a Piazzale Loreto

Le immagini di Christian Schiefer, fotografo svizzero presente a Piazzale Loreto il 29 aprile 1945, giorno in cui il cadavere di Mussolini venne riportato a Milano.

Giovanni Scirocco

Memoriali, musei e monumenti dello studio di architettura e urbanistica BBPR

Architettura, Antifascismo, Resistenza, Deportazione, Liberazione, Memoria

A cura di ANED

Piazzale Loreto, 10 agosto 1944

Quella di piazzale Loreto (la “prima” piazzale Loreto, la strage nazifascista di 15 partigiani) è una vicenda complessa, in cui si intrecciano quasi inesorabilmente storia, politica, memoria, narrazione

Giovanni Scirocco

Giuseppe Scalarini: l’Italia fascista è un carcere

Un viaggio intorno a una vignetta di Giuseppe Scalarini, disegnata dal più grande artista italiano della satira e della caricatura in una data imprecisata dopo la Liberazione.

Maurizio Guerri

Aldo Carpi, Passa la zuppa al Revier Gusen I, 1959

Il disegno di Aldo Carpi "Passa la zuppa al Revier Gusen I" fu donata dall’autore all’amico storico e critico dell’arte Mario De Micheli, docente al Politecnico di Milano. L’immagine rimanda all’esperienza di deportazione del pittore milanese nel lager di Mauthausen e nel sottocampo di Gusen I

Maurizio Guerri

Venanzio Gibillini (Milano, 1924-2019)

“Mi chiamo Gibillini Venanzio. Sono sopravvissuto nei campi di Flossenbürg, Köttern e Dachau”. Instancabile, iniziava sempre così Venanzio le sue infinite testimonianze nelle scuole e negli incontri pubblici.

A cura di ANED